domenica 20 aprile 2008

Intervista a Fabio Celoni



KETTY FORMAGGIO per KINART: Ciao Fabio, grazie di aver accettato di fare un intervista per i ragazzi di Kinart.it!

Qui i ragazzi ti hanno posto domande sui lati tecnici del tuo mestiere ma hanno anche fatto domande sul tuo rapporto in generale con fumetto, io cercherò di farmi da portavoce.

FABIO CELONI: Ciao Ketty e un saluto a tutti, sono io che devo ringraziarvi per la vostra gentilezza. Cercherò di essere il più esauriente possibile, verso tutti coloro che muovono i primi passi in questo bellissimo e complesso mondo.


K: Iniziamo anzi con la domanda classica: chi è Fabio Celoni e cosa ha fatto finora nel mondo del fumetto? (domanda di “TheJasco”)

C: Fabio Celoni è un ragazzo di 36 anni che per qualche misterioso motivo decise di fare fumetti fin da quand’era bambino. Ho ancora molte di quelle “tavole”, iniziate intorno ai 6 anni: le cominciavo a disegnare pieno d’entusiasmo e con l’intera storia nella testa, prima di accorgermi, a pagina 2, che c’era un’altra storia molto più bella che doveva essere raccontata. Dunque mollavo e cominciavo un’altra cosa, ritrovandomi così pile infinite di “prime tavole” di cui ora sarei curiosissimo di conoscere – o ricordare – il finale.
Il mio obiettivo ad 8 anni era la Mondadori, cioè la casa editrice che pubblicava “Topolino”. Da lì in poi praticamente non pensai ad altro che a fare il disegnatore di fumetti.
Dopo le scuole medie, malgrado fossi un frugoletto di 13 anni, mi iscrissi alla Scuola del Fumetto di Milano, e fu tanta la mia ostinazione che iniziai a lavorare quasi subito, terminato il corso. Il primo incarico fu per “i Fantastici tre Supermen”, un fumettino di satira politica. Avevo qualcosa come 17 anni, credo.
Poi ebbi la fortuna di conoscere Silver che l’anno dopo mi prese nella scuderia di “Mostri” per la Acme. Fumetto horror di stampo realistico che purtroppo ebbe vita breve, cosa che mi fece accelerare i tempi con la Disney: già da mesi stavo facendo delle prove per il mio vecchio amore, “Topolino”, ora che ero a spasso mi ci gettai a capofitto.


Intanto lavoricchiavo qua e là, ho fatto anche il telefonista – due giorni – in un call center milanese prima di rendermi conto che vendere la rivista della Polizia ai Rotary Club svizzeri non faceva per me. Finché il grande Giovan Battista Carpi mi disse che secondo lui sarebbe stato meglio per me passare più tempo in sede, più che provare a casa che si dimostrava dispersivo: dunque feci un paio di mesi di “bottega” presso di lui, in quella che non era ancora l’Accademia Disney, ma una scuola molto più informale, appena nata, di cui ho dei ricordi bellissimi. Fui lì a studiare la grande tradizione americana e italiana, finchè Carpi decise di passarmi una sceneggiatura che avrebbe dovuto disegnare lui, e che si rivelò invece la mia prima storia: “i tre porcellini e la fata del bosco”, di Fabio Michelini, che fu pubblicata diversi mesi dopo, nel 1991, su “Topolino”. Massimo Marconi un giorno disse che a quanto si ricordava ero stato il più giovane disegnatore Disney italiano di sempre, ma bisognerebbe controllare! Ricevere quella storia, disegnarla e vederla pubblicata su una testata leggendaria come Topolino rimane come una delle più grandi emozioni della mia vita, non solo professionale.
Ho lavorato per la Disney praticamente fino ad ora, e quest’anno saranno 18 che faccio questo mestiere. Malgrado negli anni più recenti abbia di molto rallentato la mia produzione per la Disney, ho sempre tentato di collaborare per quanto mi era possibile con copertine, libri, giochi in scatola, progetti diversi, ad esempio la prima versione a fumetti di Kingdom Hearts fu mia: ne curai però solo le matite, se non ricordo male.


Per i comics Disney ho lavorato su “Topolino”, “Paperino Mese”, “PK”, “Paperinik”, “Paperfantasy”, “DisneyMEGAzine”, “L’economia di Zio Paperone”.
Nel settore libri, “il dizionario parlante inglese”, un pannello dipinto gigante de “La bella e la bestia” colorato dal bravissimo Silvano Scolari, dei puzzle, il “manuale del detective”, diversi libri della collana “disneyavventura”, e qualcos’altro che probabilmente mi sto scordando.
L’altra importante collaborazione è naturalmente quella con la Sergio Bonelli Editore, cui sono arrivato relativamente di recente, nel 2000. Mauro Marcheselli venne colpito da una mia storia Disney pubblicata in bianco e nero su un libro della Einaudi che raccoglieva alcune tra le più belle storie poliziesche che Faraci scrisse per “Topolino”. Visto che Tito già collaborava con la Bonelli volle mettersi in contatto con me attraverso lui, sapendo che da tempo collaboravamo insieme ed eravamo amici. Come arrivò a propormi una storia di Dylan Dog guardandone una di Gambadilegno, ancora devo capirlo, ma a volte il destino è davvero incredibile… perché solo pochi giorni prima, mi ero deciso a proporre qualcosa proprio per Dylan Dog, di cui ero sempre stato un grandissimo fan.
Mi incontrai con Mauro in una libreria, in cui ero andato per incontrare invece Tito e mostrargli i primissimi studi di Dylan dopo la proposta bonelliana. Era passata circa una settimana da quando Mauro mi chiese se volevo provare. Mai comunque li avrei mostrati a Marcheselli, non mi sembravano ancora pronti… ma quando ci incontrammo e mi chiese se avevo qualcosa nella borsa, decisi di giocarmela e contro ogni mia previsione evidentemente gli piacquero, tanto che il giorno dopo avevo già in mano la mia prima sceneggiatura per Dylan, “i quattro elementi”.
Da allora ho realizzato diverse altre storie per Dylan, fino all’esperienza con la miniserie bonelliana di “Brad Barron”, sempre su testi di Tito, testata di cui ho curato l’ideazione grafica, le copertine e una parte dell’ultimo episodio. E stata davvero una bella esperienza.


Ora sono in edicola con un nuovo progetto, molto sentito e impegnativo, per la casa editrice Star Comics: “Nemrod”, una miniserie in 12 numeri di cui sono co-autore insieme ad Andrea Aromatico, oltre che essere presente come disegnatore, sceneggiatore, copertinista e supervisore. Ci sta dando delle belle soddisfazioni, soprattutto per la qualità del lavoro che tutti i disegnatori impegnati nel progetto stanno producendo.
Oltre a ciò, facendo una rapida carrellata delle mie collaborazioni e progetti nel corso degli anni, posso citare “L’isola che non c’è” (Ciao, Giac!), “Ehi Taxi!”, un gioco in scatola che purtroppo non vide mai la luce, “Le strampalate avventure di Capitan Remo”, diverse copertine qua e là, manifesti, un paio di calendari (l’ultimo è uscito quest’anno per la Lamborghini trattori, un calendario a fumetti western con disegni e sceneggiatura miei), il disegno del logo per la Squadra Omicidi di Milano. In più, ho scritto “Milano, esoterismo e mistero”, un saggio storico-esoterico sui dietro le quinte poco conosciuti della Lombardia misteriosa, pubblicato dall’Editoriale Olimpia. Ho collaborato con De Agostini, Mondadori, Kinder e Ferrero, Nestlè, Rainbow Company (sul posto, ad Hong Kong) e diverse altre aziende e case editrici.


K: Visto che ti leggeranno molti ragazzi che stanno iniziando a fare fumetto, parliamo ora della tecnica.
Puoi dirci quali sono i tuoi fidi strumenti di lavoro? Tipo di matite, tipo e grammatura dei fogli, china, pennelli, eccetera... E qual'è il tuo formato preferito per la tavola? (domanda di Sergio “Foolys” Algozzino)

C: Fino a pochi anni fa lavoravo esclusivamente con micromine 0.5, ora sono diventato molto meno intransigente e mi diverto a provare tutto ciò che mi capita sottomano, ultimamente sto usando molto le FaberCastell…, alternate a una micromina 0.7, ma appunto dipende dal periodo, dalla voglia. Mentre per la china sono più esigente: mi piace che sia bella nera, densa, “materica”, sfrutto fino al midollo l’ottima Winsor & Newton, anche se d’estate sembra di spalare bitume. Della stessa marca anche il mio pennello, sempre e solo un numero 1 serie 7 in martora dai tempi della Disney, che solitamente dura molto poco, ma solo perché lo maltratto. In realtà è un ottimo strumento, non gli ho ancora trovato degli antagonisti validi. Il pennello è uno strumento ostico, presuntuoso, chiede molto e inizialmente ti ripaga con grandi frustrazioni, ma se riesci a entrare nelle sue grazie ti ricompensa di tutto. E’ uno strumento meraviglioso, incredibilmente duttile. Il lavoro con la Disney mi ha permesso di carpirgli molti segreti, ma ho dovuto ricominciare quasi da zero quando ho provato ad utilizzarlo per l’inchiostrazione realistica bonelliana. Poi i pennini, evito di farti nomi sulle marche perché spesso neanche le guardo, semplicemente li provo, li tasto, verifico che siano morbidi al punto giusto, tanto anche loro non mi durano mai molto. I pennarelli li uso poco, per alcuni dettagli, ma odiando squadrette e righelli tento sempre di fare tutto a mano libera con pennello e pennino, anche se è più lungo e difficile. Però è sempre un bel esercizio, la mano va tenuta allenata.
Per i fogli, degli Shoeller, spesso Durex, finché li faranno, sono anni ormai che dicono che stanno scomparendo: di certo la qualità è diminuita, mi ricordo quelli di qualche anno fa, sopportavano di tutto, potevi macellarli con la lametta e quelli sempre lì, beffardi e orgogliosi. Erano stupendi da sfiorare, fogli su cui era un piacere fisico disegnare. Anche adesso comunque rimangono a mio avviso i migliori in quella fascia di prezzo.
Grammatura? Variabile, direi. Per il formato di tavola, mediamente mi taglio dei 25x35, ma è capitato in Disney che lavorassi leggermente più in piccolo (davvero di poco, però).

K: In genere in quanto tempo "sforni" una tavola realistica, una cartoon e un'illustrazione? (domanda di Kont3)

C: Dipende naturalmente da che tavola è. Come sa chiunque disegni, ci sono giorni in cui malgrado tutti gli sforzi del mondo non riesci a concludere una vignetta, altri in cui ti illudi per un attimo che questo sia un lavoro facile, per come ti sta venendo bene quella tavola. Ma per rispondere alla tua (vostra) domanda, ti dico che mediamente impiego una giornata per terminare una tavola. Solitamente realizzo prima alcune matite e poi le inchiostro, perché sono un dannato cesellatore dubbioso che non è mai contento di quello che fa, ed è più facile aggiustare una matita che una china. Il tempo per le tavole realistiche e umoristiche è esattamente lo stesso, l’umoristico non ha nulla (anzi) da invidiare al realistico in quanto a difficoltà, quando è fatto con coscienza.
Il tempo di un’illustrazione varia anch’esso, va da un giorno a 3-4 o più, a seconda della tecnica usata, delle dimensioni, della difficoltà anche non trasparenti. Ad esempio, malgrado le copertine di Nemrod sembrino all’apparenza più semplici di quelle di Brad Barron, mi prendono alla fine lo stesso tempo, perché sono fortemente concettuali e complesse da sintetizzare. In Nemrod ho avuto la possibilità di avere una libertà compositiva diversa, visto che il progetto era mio, ho optato per delle copertine fortemente simboliche, con pochi elementi d’impatto, molto grafiche, senza richiami a momenti dell’albo ma che racchiudessero in sé lo spirito dello stesso; il tutto amalgamato in una successione cromatica degli sfondi sviluppata nel corso dei 12 numeri la cui “chiave” interpretativa va cercata in una disciplina esoterica che fa da sfondo a Nemrod. Anche lo stile delle copertine varia, l’unica cosa che mi interessava era il messaggio.

K: Come disegnatore hai la doppia anima del disegnatore realistico e funnyanimal, questo solletica la curiosità dei nostri ragazzi di Kinart. Questa tua doppia natura fa sì che tu abbia due modi diversi di rapportarti alle tavole oppure lo studio dei volumi, dei manichini, dei riferimenti si concilia in una sola metodologia? (domanda di m@ssy77)

C: Credo che i fondamenti anatomici realistici siano essenziali anche per disegnare l’umoristico, che ne è una deformazione: cosa deformi, e come, se non conosci la forma di partenza? Questo è lo scoglio su cui a volte si infrangono coloro che pensano che disegnare umoristico sia una scappatoia dalle difficoltà di altri generi, non lo è, anzi a mio parere è un passo successivo, perché richiede la conoscenza di altre sintesi specifiche, e la preparazione complessiva di ciascun disegnatore trasparirà da ogni movimento, da ogni dinamica, da ogni composizione. Non si può barare. Lo studio dei volumi, delle ombre, della prospettiva, dell’anatomia, è essenziale in entrambe le “specialità”. Più si è completi, più il disegno sarà ricco, vivo, comunicatore, con livelli di lettura diversi. Altrimenti si rischia solo di rimanere dei ricopiatori di pose, dei fotocopiatori di linee altrui. Bisogna invece diventare degli esploratori, armarsi di machete nella giungla, sperimentare, tentare di capire. E’ l’unica strada percorribile per trovare i “nostri” veri tesori.

K: Quali sono le fasi di lavoro per le tue tavole? (domanda di Manson)

C: Mi leggo tutta la sceneggiatura, cerco di immergermi nell’atmosfera della storia, inizio a racimolare la documentazione. Poi passo a studiarmi i personaggi secondari e, una volta trovati, parto con le tavole vere e proprie. Solitamente realizzo un layout a matita rapidissimo e incomprensibile, in formato 21x15, che mi serve esclusivamente per inquadrare la regia della tavola. Regia che rifarò almeno altre tre volte: è ben difficile che tenga la prima opzione, anche se a volte capita. Ma di solito la prima idea non è mai quella giusta. Poi passo a disegnare, solitamente faccio delle matite abbastanza definite, con particolari spesso inutili. Mi chiedo ancora oggi perché, ma credo che la risposta sia semplicemente: perché disegnare mi piace! Quando ho un po’ di tavole a matita inizio ad inchiostrarle, nel modo che ti ho già detto. La fase dei ritocchi mi prende davvero molto tempo, ma non ce la faccio a consegnare una tavola che credo sia ancora migliorabile. In realtà, migliorabili lo sono sempre, ma il tempo e le consegne sono quelle che sono, e alla fine si è costretti a trovare dei compromessi tra la passione e il lavoro.


K: Hai a che fare con molti sceneggiatori, come ti approcci alle sceneggiature? Ti piace sentirti ben indirizzato o le sceneggiature ti stan strette? E poi ti senti molto prigioniero della gabbia bonelliana quando ci hai a che fare? (domanda di Kont3 e Delund)
C: Mi approccio alla sceneggiatura con tutto il rispetto possibile verso il lavoro di un’altra persona, tentando sempre di rendere al meglio le emozioni che credo questa voglia trasmettere. Tuttavia non amo le sceneggiature troppo limitanti, con descrizioni eccessive. Quando capitano, mi rendo conto che tendo a spezzare quelle catene che sento addosso.
Il disegno dev’essere vivo, naturale, non dev’essere una semplice descrizione di ciò che è scritto nella sceneggiatura: è invece l’altra parte della stessa narrazione, con la medesima importanza, non può essere tenuto a guinzaglio o sarebbe solo una belva in gabbia. Ecco allora la regia, la fotografia di scena, il respiro della tavola, assolutamente personali. Il disegnatore deve trovare un equilibrio tra ciò che lo sceneggiatore vuole trasmettere e la sua visione della stessa storia, senza stravolgere il messaggio originale, ma conferendogli anche la sua voce. Dev’essere un coro, armonico e fluido il più possibile. Insomma, non uno l’esecutore dell’altro ma due anime che raccontino al stessa storia.
Infine non mi sono mai sentito prigioniero della gabbia bonelliana, perché sono consapevole di quello che sto facendo, sto raccontando con un linguaggio piuttosto che con un altro e ognuno ha le sue difficoltà e la sua bellezza. Anche la gabbia americana o francese è pur sempre una gabbia, anche se dovessi disegnare sul marciapiede, avrei sempre la limitazione della misura del marciapiede. Si possono dire cose meravigliose dipingendo una tazzina da caffè, e cose totalmente inutili dipingendo una tela maestosa. Tutto sta in cosa si fa, in come lo si fa, e con che spirito lo si fa.

K: Hai spesso a che fare con modelli, personaggi e persone che già esistono; come ti approcci in via pratica alla loro realizzazione (ad esempio Brad Barron)? (domanda di Fumegio2007)

C: Ci sono in molti di questi casi delle indicazioni di partenza, comunque. Nel caso di Brad, con Tito avevamo deciso di partire dal George Clooney visto in un particolare momento de “Dal tramonto all’alba”. Ho passato molti giorni ad elaborare il personaggio, ma volevo evitare che fosse un semplice clone dell’attore, desideravo vivesse di vita propria e avesse una personalità. Mi sono scontrato con diverse difficoltà tecniche legate alla conformazione del viso di Clooney, per cui il risultato era sempre più banale di quello che avrei voluto. Così decisi ad un certo punto di estremizzare tutto, passai dall’altro lato della barricata e mi buttai in una feroce caricatura: da lì, una volta comprese alcune linee guida fondamentali che volevo tenere nel viso finale, camminai a ritroso come un gambero “rinormalizzando” via via il tutto, fino a tornare nel campo del realistico ma con un personaggio diverso da quello da cui ero partito. Funziona sempre in un modo diverso, in ogni caso. Di solito ho un’immagine che si forma in mente abbastanza presto, la difficoltà enorme è agguantarla mentre ancora si dimena, perché ha come dire una forma ancora “liquida”, cioè non compiuta. E’ un’idea, appunto. Bisogna pescarla. E qui i tempi si dilatano, a seconda dei casi: a volte la si coglie presto, e poi si gioca di lima per perfezionarne i tratti, altre sembra sfuggirti sempre, e qui entrano in gioco la testardaggine, il mestiere, l’intuizione, e perfino la fortuna, il cogliere un suggerimento imprevisto dall’esterno, da un pensiero, o da un’immagine vista di sfuggita.

K: Hai mai avuto rapporti con editori esteri? C'è un personaggio del fumetto americano o mondiale che ti piacerebbe molto interpretare? (domanda di thekillingjoke)

C: Alcune case editrici francesi mi hanno proposto delle serie realistiche ma mi sono sentito di rifiutare, semplicemente perché il realistico lo faccio già con grande soddisfazione in Italia, farlo da un’altra parte tanto per togliermi uno sfizio non avrebbe senso, non ho particolari esterofilie da appagare… sono invece molto tentato da cose diverse, che qui hanno purtroppo poche possibilità di vedere la luce, per ora: cose di taglio più grottesco, personale, che sono del resto le cose che sento più vicine malgrado sembrino non avere sbocchi in un mercato sempre più refrattario alla sperimentazione, un mercato in cui sembra si voglia “rischiare” solo nell’assenza di rischio, cioè sul già consolidato, sul baciato dai consensi, con la conclusione che spesso si vedono solo cloni di cloni che non aggiungono nulla a ciò che già è stato detto, ma anzi ne spremono anche quel poco di freschezza rimasto e magari contribuiscono ad estinguere un progetto buono in partenza. Ed è triste, perché in giro ci sono delle cose bellissime, degli autori pieni di talento, costretti ad “emigrare” per poter pubblicare qualcosa di diverso. Le cose di cui ti parlavo anche in Francia avrebbero comunque i loro problemi, le direttive editoriali esistono dovunque. Dunque, per quello che riguarda il grottesco, se potessi fare quello che voglio, senza indicazioni di stile o costrizioni, sarebbe divertente farlo, altrimenti devo dire che non sento particolarmente il bisogno di fare una cosa che non mi dà stimoli.
Un personaggio del fumetto americano? Tanti, sicuramente… mi tenterebbero molto Batman, Thor, Spider-Man, e troppi altri.



K: Ecco una domanda classica ma molto cara a chi disegna: ti è mai passata la voglia di disegnare? Nel caso di risposta affermativa, come si supera una crisi simile? (domanda di Avem)

C: Smettendo di disegnare, o almeno io farei così! Non ce la farei davvero a fare questo mestiere senza la passione, con tutti i sacrifici che richiede. Farei altro, semplicemente. Le cose da fare nella vita sono tante. La passione non te la puoi far venire a forza. Certo, si può andare avanti, farlo senza voglia per puro mestiere, ma mi sentirei di tradire troppe cose per poterlo fare. E dunque la mia risposta è: no, non mi è mai passata la voglia di disegnare, fino ad ora.

K: Che cosa in particolare ti ha fatto progredire durante la tua formazione (grandi fumettisti, influenze, maestri, scuole)?
Inoltre che tipo di tirocinio hai affrontato prima di diventare professionista (e qui credo che ritorni la copertina che ti ha fatto vedere Giac)?

C: Di certo è stata fondamentale la preparazione scolastica, tutto lo studio fatto all’inizio e che naturalmente non finisce mai, ma prosegue giorno per giorno. Tuttavia per me è stato importante avere qualcuno che mi insegnasse i rudimenti delle tecniche, mostrandomi gli strumenti giusti e instradandomi nel mondo del lavoro, oltre a farmi conoscere tanti autori che mi erano ignoti. Va da sé che la scuola da sola non basta, non può bastare. La spinta deve venire dal personale desiderio, dalla sincerità della passione, da quello che hai o non hai da dire. Se non hai niente da dire non c’è scuola che tenga, purtroppo. Ho avuto la fortuna di essere allievo di Giampiero Casertano prima e di Giovan Battista carpi poi, oltre a loro i miei maestri “virtuali” sono stati infiniti, a tutti loro devo qualcosa, e ogni giorno cerco di ripagarli per quello che posso facendo al meglio il mio lavoro. I grandi fumettisti che mi hanno fatto da guida in questi anni – e continuano a farlo – sono davvero troppi per essere elencati tutti, ma posso tentare una lista di certo incompleta: oltre ai tre grandissimi (quattro, se sdoppiamo i Breccia) già citati nella domanda, di certo Boucq, Bernet, Mattotti, Moebius, De Crecy, Mugnoz, Nine, Mignola, Cavazzano, Pratt, Uderzo, Gottfredson, Scarpa, Jacovitti, Zezelj, Guarnido, Loisel, Wendling, Raymond, Micheluzzi, Miller e tanti altri.
Sul tirocinio penso di averti già risposto alla prima domanda, ma… devo correggerti perchè quando facemmo “l’Isola che non c’è”, nel ‘96, lavoravo già come professionista da 7 anni, di cui 6 passati in Disney!

K: Una domanda che può sembrare polemica, credi nella meritocrazia nel mestiere del fumetto? (domanda di Avem)

C: Certo. Chi ha qualcosa da dire solitamente trova il modo e il luogo per dirlo, prima o poi. Nessuno terrebbe a casa un nuovo Moebius, un nuovo Pratt, sarebbero dei pazzi. E se a volte succede che qualcuno non noti subito un talento acerbo, se oltre al talento quest’ultimo ci unirà anche la tenacia e l’umiltà, credo che difficilmente non troverà il modo di proseguire per la sua strada. Le occasioni arrivano ma bisogna muoversi prima di loro. Tutto il resto sono solo parole.

K: C'è chi ti chiede quanti soldi prendi per tavola per le varie testate a cui collabori. (domanda di Daniele Vessella).
Io ci aggiungo un carico da dieci e ti chiedo anche che ne pensi riguardo i giusti pagamenti per i fumettisti.

C: Non mi sembra il posto per parlare di compensi privati, perché sinceramente penso che sia una domanda che vada ad invadere la sfera personale. Guadagno meno di certi e più di altri, come capita a tanti, e proprio perché rispetto la meritocrazia e l’anzianità non mi permetterei di chiedere di più di qualcuno che lavora da 40 anni con professionalità. In ogni caso, giustamente, non me lo darebbero. Credo sia inutile darti una cifra sul pagamento che riterrei minimo, i fattori sono troppi e troppo complessi da affrontare qui, andando a toccare l’esperienza di ognuno, le capacità e il talento, l’impegno. Poi le dimensioni, le possibilità e la politica della casa editrice, il momento, i compromessi: i “giusti pagamenti” sono alla fine quelli che ciascuno accetta, perché ognuno è libero di valutare i pro e i contro di un’offerta economica, mettendo sul piatto le proprie ambizioni, prospettive e aspettative. All’inizio spesso è difficile, c’è una grande competizione e i prezzi si possono rivelare molto bassi, diventa difficile lavorare al meglio e viverne, l’unica speranza è di farsi strada con il proprio talento e il proprio lavoro, cercando di capire cosa si mette sul piatto della bilancia. A volte però ci si svende, si baratta la propria professionalità pur di pubblicare, credo che servirebbe una coscienza maggiore da parte di alcuni, la consapevolezza del valore del proprio lavoro e dei propri diritti, che alla lunga finirebbe con l’incidere anche con le politiche editoriali e creerebbe una spirale virtuosa. E’ una forma di rispetto verso ciò che si fa, che deve partire proprio dall’autore, diventando di conseguenza rispetto per il lettore. Per questo motivo non sono d’accordo neanche con lo svendere le proprie tavole a prezzi ridicoli, ho visto tavole vendute a 1 euro, quasi meno del prezzo del foglio bianco. Senza andare a fare i conti in tasca a nessuno, credo che questo comportamento mini alla lunga la professionalità e il lavoro di tutti, perché il messaggio che passa è che una tavola sia cosa da poco, fatta in fretta, di poco o nessun valore, un allegato alle merendine. “In fondo”, si dice ipocritamente, “l’autore è già stato pagato, dovrebbe essere contento”. Dimenticando che si tratta di un’opera originale, che possiede un valore intrinseco ed è ben diversa da una fotocopia. Un’opera nasce quasi sempre con fatica, impegno, e anni di studio sono stati necessari alla sua realizzazione: ognuna di esse è unica e irripetibile. E’ una semplice mancanza di cultura, legata alla scarsa conoscenza del mondo dell’arte in questo paese. Pochi si sognerebbero di accampare rimostranze nel vedere in vendita a 3000 euro una litografia firmata da un pittore di grido, ma se una tavola a fumetti originale di un autore altrettanto importante viene venduta a più di 200 euro c’è chi grida allo scandalo.


K: Infine la "crisi del fumetto". Chiederti se c'è crisi nel mondo del fumetto porterebbe a una valanga di considerazioni e sarebbe comunque riduttivo.
Preferisco chiederti se tu sei più pessimista od ottimista a riguardo.

C: I lettori diminuiscono progressivamente, gli stimoli esterni sono sempre di più, alimentati dallla tecnologia e dalla velocità delle informazioni, il ricambio è rapidissimo e la curva esponenziale. Ma voglio credere che il fumetto continuerà ad esercitare un fascino unico su chi deciderà di spenderci del tempo, che rimarrà uno scrigno di sogni dotato di una magia irripetibile e tutta sua, fatta di tempi di lettura personali, cioè del rapporto unico che viene a crearsi tra autore e lettore, è uno scambio quasi alla pari, l’autore dà un proprio ritmo alla storia ma il lettore fa lo stesso, cosa che non può avvenire nel cinema, ad esempio. Personalmente non potrei fare a meno dell’infinita ricchezza del fumetto, la mia vita sarebbe stata più povera e triste senza di lui. E rinunciare a toccare la carta, sentirne la matericità sfogliando una a una le pagine, anche questo difficilmente sarebbe sostituibile. Poi non mi chiedo come si evolverà questo mezzo, non sono Nostradamus! So solo che ci finché ci saranno storie da raccontare e gente che vorrà ascoltarle, si troverà un modo per narrarle, è stato così da sempre e continuerà ad essere così.

K: Da qui ne viene naturale chiederti con che spirito un aspirante fumettista dovrebbe affrontare realisticamente questo mestiere nell'attuale situazione del fumetto mondiale?

C: Non ho manuali di regole morali da suggerire, ognuno deve camminare con le proprie gambe, pensare con il proprio cervello e sentire con il proprio cuore. Se vuole davvero fare questo mestiere gli consiglio di studiare il più possibile, di disegnare fino allo stordimento dei sensi e allo slogamento dei polsi, di prenderlo come un gioco ma anche come una cosa serissima e di una difficoltà estrema, che dunque richiede costanza, impegno, fatica e include sempre delle delusioni. Gli consiglio di cercare di capire su che strada vuole muoversi, non su quella che gli sembra più furba o facile ma su quella che sente davvero più vicina, quella che desidera davvero percorrere, e percorrerla, guardandosi intorno, informandosi, chiedendo consigli ad altri disegnatori, senza paura, confrontandosi con i Maestri, tentando di capire quali sono i punti deboli del proprio lavoro più che quelli già consolidati, comprendendo come funzionano le realtà editoriali e quali rischi comportano, perché i sogni hanno il brutto vizio di far perdere il contatto con la terra sotto i piedi. Credo che sia meglio fare qualcosa in cui si crede, e magari sbagliare, fallire, piuttosto che svegliarsi dopo trent’anni e guardarsi indietro pieni di rimpianti per non averci provato.

K: Chiudiamo con un classico: quali sono le tue speranze e le aspirazioni per il tuo futuro professionale? Vogliamo sapere sia le più concrete che i sogni nel cassetto, mi raccomando!

C: Le mie speranze sono sempre quelle di poter realizzare qualcosa di cui poter essere soddisfatto, ma sono allo stesso tempo le mie paure, perché è proprio l’insoddisfazione che spinge a migliorarsi e a cercare strade nuove. Mi auguro anche di riuscire a realizzare tutti quei progetti che da anni si lamentano nella mia testa, perché han voglia di prendere una boccata d’aria, e di terminare tutti quelli che hanno visto la luce ma che sono rimasti bambini, bloccati nel loro sviluppo. In questo momento ho diverse cose a cui tengo molto, tutte in fase di elaborazione più o meno avanzata. Un libro, a cui sto lavorando da almeno quattro anni, e che conto di finire in questo. Un fumetto nato diverso tempo fa, a cui tengo moltissimo, che ha già un editore dotato di una pazienza infinita e che prima o poi riuscirò a finire. Una serie di libri, ancora embrionali ma per i quali vorrei sperimentare delle tecniche nuove. Altri due fumetti, realizzati con tecniche che ho già individuato e che non vedo l’ora di sperimentare. Una rivista in cerca d’editore. Un volume di creature grottesche. E naturalmente tutto quello che mi impegna e diverte attualmente, che cercherò di fare sempre nel migliore dei modi possibile… anche se mi sa che mi serviranno due vite per farci stare tutto.

2 commenti:

Elena Cavaliere ha detto...

Stupenda intervista! Illuminante!

Grazie mille a Fabio Celoni, alla nostra Ketty, e alle super domande dei ragazzi di Kinart :)

designerofchaos ha detto...

grandissimo Fabio! grande grande grande XD...bell' intervista ad uno dei miei miti ;)

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